Sono nato a Venezia nel 1956. Mio padre aveva un negozio di fiori a San Filippo e Giacomo, così ho passato la mia infanzia in quel campo, dove tutti si conoscevano e tutti mi conoscevano e dove ogni mattina, per prima cosa, si tirava fuori la pompa e si lavava il campo senza aspettare che qualcuno, pagato o meno, lo facesse per noi. Ricordo che prima del ponte della Canonica, sulla destra, si trovava un macellaio. Il suo gatto, enorme, se ne strava sdraiato in mezzo alla calle tutto il giorno. E tutti dovevano strisciare sui muri o scavalcarlo, per passare. La calle era sua come Venezia era mia.
Ho capito di essere un miracolato verso i dieci anni, quando ho alzato lo sguardo e mi sono accorto, di colpo, di essere circondato dalla bellezza. Ogni cosa che vedevo camminando per la mia città era profonda, commovente, insuperabile. La luce in bacino, il movimento instancabile dell’ acqua, lo splendore dei mosaici, le proporzioni degli edifici. Molti posti al mondo perdono il loro fascino per un semplice acquazzone, la mia città mantiene il suo fascino, la sua forza e la sua profondità, in qualsiasi momento. Sono solo variazioni, in stile Bachiano, di una perfezione assoluta.
Poi, lentamente, tutto è cambiato, e quello che mi circonda adesso non è la mia Venezia ma il suo cadavere, tenuto in vita artificialmente. Oggi vivo in una città invivibile, perché questa non è più una città per residenti, ma per “soggiornanti”, e noi veneziani siamo solo i figuranti non pagati di un ininterrotto set cinematografico che non produrrà mai un film, perché il business sta nel continuare a consumare pellicola, non nel farne qualcosa.
Molti anni fa, mi fu chiesto di tenere una lezione sulla fotografia in una scuola media. Nell’ aula magna, davanti a tutti i ragazzi, dissi loro che non è possibile parlare di fotografia senza prima essere d’ accordo su cosa è o non è un’ immagine, e li invitai a pensare al volto della mamma, di fissarlo mentalmente: subito dopo presi una cartolina, la strappai in mille pezzi e li gettai in aria come coriandoli, chiedendo loro di fare la stessa cosa, mentalmente, col volto che stavano immaginando. Non ci riuscì nessuno, perché una madre è un’ immagine, non una cartolina. E un’ immagine, per essere tale, deve andare oltre la sua materia e le sue dimensioni: è fatta di ricordi, di affetto, di amore. Nello stesso modo, ancora oggi, non riuscirei a strappare un’immagine di Venezia nemmeno in cartolina.
Io sono convinto che solo chi vive in una città debba avere il diritto e il potere di decidere quale deve essere in suo presente e il suo futuro, e che questa semplice regola sia stata dimenticata negli ultimi cinquant’anni dando a un’ infinita accozzaglia di nullità le chiavi di un patrimonio immenso e irripetibile, ma sono anche convinto che, come il gatto del macellaio, sia possibile mettersi di traverso e costringere tutti a cambiare direzione.